Il capolavoro del 1968 del regista Stanley Kubrick, che ha ottenuto un premio Oscar per i migliori effetti speciali visivi e un David di Donatello come miglior film straniero, verrà riproposto, in versione restaurata, nelle sale cinematografiche italiane il 4 e il 5 giugno, in occasione del suo 50esimo anniversario.
Questa pellicola senza tempo ci propone dei fantastici effetti speciali, una regia impareggiabile e una fotografia talmente magistrale che è impossibile non valutare questo film come un capolavoro senza tempo anche a distanza di 50 anni dalla sua uscita.
Ma prima di tornare in sala a goderci nuovamente la versione restaurata di “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick mi piacerebbe porre l’accento sulla riflessione filosofica che lo stesso Kubrick ci propone in questo intramontabile capolavoro cinematografico.
Con grande maestria Kubrick mette in scena il problema esistenziale dell’uomo dedicandosi a tematiche profonde e fondamentali come l’intelligenza artificiale, il problema gnoseologico della tecnologia asservita alla ricerca della verità e, infine, un’appassionata analisi sui comportamenti umani (e non solo) di fronte all’ignoto.
Proponendo così, sul grande schermo, un’approfondita riflessione sul rapporto tra civiltà e tecnologia.
Nella prima parte del film ci troviamo agli albori della civiltà, con le scimmie ancora incontrastate dominatrici della terra (emblematica è la scena della scimmia che impugna una clava).
Ma anche loro, sebbene siano esseri primordiali, covano nel profondo il desiderio, mai estinto, della conoscenza, che spesso risulta sfuggente o irraggiungibile, il che conduce verso una situazione di afflizione e smarrimento nei confronti dell’ignoto: proprio come ci ricorda la comparsa del monolite.
Come le scimmie anche gli uomini del 1999, sebbene più tecnologicamente avanzati, di fronte alla scoperta del monolite ritrovato sulla Luna, regrediscono al loro stato primordiale di fronte a ciò che, ancora una volta, si presenta loro come inconoscibile e che pertanto li pone innanzi ai limiti della loro conoscenza.
La tematica dell’intelligenza artificiale irrompe durante la missione Giove, quando l’intelligenza che governa l’astronave prende il sopravvento e si ribella agli esseri umani che avevano messo in dubbio la sua efficienza.
Immortali restano le scene delle astronavi che sembrano danzare nello sconfinato universo alla ricerca di verità ancora ignote.
Infine, arriviamo su Giove, che già dal nome intuiamo essere la terra di Dio, che porta l’unico uomo sopravvissuto a sentirsi totalmente sperduto nell’immensità dell’infinito provocandone una crisi esistenziale scaturita dall’impossibilità di comprendere ciò che di fatto risulta essere inintelligibile.
Inarrivabili sono le immagini delle tempeste di Giove che sembrano volerci comunicare con prepotenza visiva tutta la potenza e allo stesso tempo la meraviglia dell’infinito e dell’inconoscibile.
Perfetta la scena finale in cui il sopravvissuto si rinchiude in una sorta di introspezione che scaturisce dalle domande che i suoi stessi occhi pongono al pubblico: domande rivolte alla vastità dell’universo, domande che accompagnano l’uomo da sempre e che, credo, lo accompagneranno per sempre.