“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è un romanzo fantascientifico di Philp K. Dick che racconta delle esperienze e dei dubbi esistenziali che, nell’arco di una giornata molto intensa, affliggono il cacciatore di taglie Rick Deckard, incaricato di “ritirare”, ovvero eliminare, otto androidi NEXUS 6 sbarcati illegalmente sulla Terra.
“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è ambientato in un futuro distopico nel quale la Terra è oramai invivibile a causa della polvere radioattiva che permea l’interna atmosfera e della “palta”, destinata ad inglobare ogni cosa.
Quella di Deckard è una vita piuttosto squallida e ordinaria, vissuta in questo mondo post-apocalittico nel quale il genere umano è sull’orlo dell’estinzione, mentre molte specie animali sono già estinte da tempo.
Chi vuole continuare a vivere è costretto ad emigrare sulle nuove colonie spaziali, mentre chi decide di rimanere sulla Terra è destinato a morire per effetto delle radiazioni.
Gli “speciali” o “cervelli di gallina” sono quei soggetti fortemente compromessi dalla polvere: presentano limitate capacità intellettive e problemi fisici non indifferenti che possono portare a delle vere e proprie mutazioni genetiche.
Ma in tutto questo dove si collocano gli androidi? Cosa sono? Perché devono essere “ritirati”?
Inizialmente gli androidi erano stati progettati al fine di aiutare gli umani nella costruzione delle colonie e per semplificare loro la vita.
Tuttavia, questi esseri bio-meccanici sono stati migliorati col passare del tempo, diventando sempre più perfetti e sofisticati, fino a giungere ai NEXUS 6, androidi dotati di esistenze vere e proprie basate sull’innesto di ricordi fittizi, atti a corroborarne l’esistenza.
Ecco allora che questi figli della tecnologia umana sono diventati troppo simili ai loro creatori e in quanto tali rappresentano un pericolo.
Ma esiste ancora un particolare capace di fare la differenza tra uomo e androide: l’empatia.
Infatti gli androidi non sono capaci di partecipazione emotiva né verso uomini o animali, né tanto meno verso altri androidi.
Questa è la convinzione comune a tutti gli esseri umani, ed anche allo stesso Deckard, almeno fino a quando non si troverà a dover affrontare questi otto NEXUS 6 praticamente umani.
La Terra è un luogo pervaso da morte e desolazione e la sola cosa che resta agli esseri umani è l’attaccamento quanto mai morboso al proprio senso empatico. Un attaccamento talmente fondamentale da essere tramutato in religione: il “Mercerianesimo”.
Questa pseudo religione prevede l’immedesimazione e la partecipazione collettiva ai sentimenti altrui tramite un macchinario artificiale.
Inoltre l’empatia viene dimostrata anche prendendosi cura di quei pochi animali viventi che ancora resistono agli effetti devastanti della polvere.
Ma non tutti possono permettersi un animale in carne e ossa, i cui prezzi esorbitanti risultano proibitivi per i più.
Ma gli animali sono uno status symbol e dunque, pur di possederne uno è lecito prendersi cura di animali artificiali, animali elettrici, che sopperiscono alla mancanza di quelli veri, troppo costosi o estinti.
Ma se un animale elettrico risulta essere un valido compromesso per l’affermazione del proprio ruolo sociale e, soprattutto, nell’ostentazione della propria empatia; allora, è forse possibile affezionarsi o addirittura amare un androide?
La domanda è allora “cosa accade quando l’uomo da vita a qualcosa di simile a se stesso?” “che sentimenti dovrebbe provare?”, domande che riconducono anzitutto a una domanda ancora più fondamentale: “cosa significa essere umani?”, “cosa è l’umanità?”.
Ne “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” Philp K. Dick mette in discussione proprio l’umanità stessa: gli androidi provano sentimenti umani, troppo umani, di fronte all’arte e alla vita; gli uomini sono invece schiavi di macchinari che riescono a riprodurre in loro stati umorali di varia entità semplicemente digitando un codice.
Androidi che fanno cose orribili spinti, tuttavia, dalla curiosità e dalla voglia di vivere un’esistenza autentica e un cacciatore di taglie che continua ad eseguire il suo straziante impiego, tormenta da dubbi e incertezze, solo per poter sostituire la sua pecora elettrica, di cui si vergogna, con un animale vero.
E poi c’è il personaggio che più di ogni altro rappresenta l’umanità in quanto tale: Isidore, il cervello di gallina, lo speciale. Che, nonostante la sua condizione, è l’unico che in mezzo a tutto questo miscuglio di sentimenti, tecnologia, empatia e dubbi, riesce ancora ad essere un vero essere umano, con tutta la sua dignità, con la sua elevata capacità di provare ancora sentimenti reali senza l’ausilio di un modulatore.
Isidore, l’unico che sembra davvero capire cosa sia l’empatia: l’empatia per un gattino morente, per un ragno vivisezionato, per un essere umano e, persino, l’empatia per degli androidi che lo disprezzano.
Disprezzato da tutti, umani e androidi, Isidore resta comunque l’ultimo baluardo di un’umanità oramai perduta, un’umanità che non riesce più a ritrovare se stessa se non tramite l’artificio di animali elettrici e modulatori di stati umorali.
Isidore è l’unico capace di sentire il vuoto di un’esistenza effimera, di un’esistenza solitaria ed è anche l’unico in grado di allontanarsi dalla tecnologia per andare alla ricerca, disperata, di un contatto; non importa che si tratti di un animale, di un essere umano o di un androide, l’importante è che sia un contatto reale.
Il filo conduttore di questo romanzo esistenzialista, che suscita così tante domande scomode, è che tutto è falso, la verità è sempre, in qualche modo, soggettiva e mai oggettiva: gli androidi sono simulacri degli uomini, la cui condizione oscilla costantemente tra schiavi e minacce per l’umanità.
Gli uomini sono a loro volta schiavi della tecnologia che loro stessi hanno costruito, ma che li portati a dimenticare la loro umanità.
Persino l’unico programma televisivo è in realtà condotto da un androide e non da un essere umano.
La stessa religione non è altro che finzione, un falso, scaturita da una vecchia pellicola cinematografica. Eppure, il predicatore Mercer, nella sua virtualità e finzione, è il custode di una verità dimenticata, o forse, più probabilmente, ignorata:
questa è la condizione della vita: essere costretti a violare la propria identità. prima o poi, ogni creatura vivente deve farlo. è l’ombra finale, la sconfitta della creazione
Nel momento in cui lo stesso Deckard comprende cosa significhi provare pietà per degli androidi, più umani degli umani, l’universo è invertito, le regole sono sovvertite e il senso stesso dell’empatia e dell’amore vengono meno.
Rick Deckard arriverà alla fine di questa interminabile giornata completamente sconvolto: tutto è perduto!
No vi sono certezze, non più la certezza della propria identità di essere umano, né tanto meno, quella dei propri sentimenti e dell’empatia.
“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è un romanzo del 1968, che, pur tuttavia, risulta quanto mai attuale.
Sebbene sia antecedente all’epoca del dominio della tecnologia, che oramai pervade ogni cosa, Philp K. Dick, è riuscito ad anticipare alcuni degli aspetti più inquietanti che governano la nostra società attuale.
A cominciare dalla TV che sembra riempire i vuoti delle nostre vite con programmi futili e banali, senza alcuno spessore o contenuto.
Si è fatto premonitore dell’arrivo di un mondo virtuale che ineluttabilmente si amalgama e si confonde con quello reale, prendendone addirittura il posto.
Il futuro descritto dall’autore è angoscioso: con androidi governati da ricordi impiantanti, che conducono a sogni tanto utopistici quanto fittizi, Philip K. Dick vuole mostrarci i lati più oscuri della tecnologia sviluppata dalla mente umana, una tecnologia che sempre più prende il comando e il sopravvento sulle nostre vite, senza che noi riusciamo nemmeno a rendercene conto.
Il mondo reale è sempre più messo da parte a favore di un mondo virtuale sempre più realistico e veritiero.